Vynil

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Vynil (2003) per violino solo


Parte prima.
Una luce artificiale metallica, fredda e continua inizia a sfrangiarsi e a risucchiare al suo interno altri fasci luminosi (un tremolo che ricorda l'effetto wah-wah, lacerti di glissandi ascendenti – ora sognanti ora convulsi – la voce un uomo che grida, l'incresparsi della stessa luce in una serie sconnessa di bagliori), in una modulazione sempre più vertiginosa.

Parte seconda.
L'arco passa a cavallo del tunnel formato da due dita in piedi sulla quarta corda, a metà fra ponticello e tastiera.
Le sferzate sempre più incalzanti dell'arco polverizzano quella che sembra una sorta di minuscola fibra sonora circolante all'interno di lamine di metalli poveri ed esili – una ragnatela fatta di sottile filo di rame – e una sinuosa voce nasale che le fa da eco.
 
Parte terza.
Nuovi bagliori, questa volta apparentemente prodotti da una dinamo misurata e precisa, o da un circuito elettrico progettato a imitazione del sequencer di un vecchio sintetizzatore analogico. Le luci continuano a baluginare e sputano fuori uno per uno i detriti sonori della prima parte, con i frammenti di glissati che si moltiplicano e arrivano a comporre lunghe catene di particelle di suono.
 
Questa è l'analisi romanzata di Vynil. Ma la circostanza che nel corso di tutto il pezzo spuntino con insistenza le tracce di una vecchia, sentimentale e sdolcinata melodia da café chantant non lascia dubbi sul fatto che tutto il suono in esso racchiuso altro non sia che l'esito, evidentemente infelice, del tentativo di far suonare dopo tanto tempo un antico disco di vinile graffiato e danneggiato.